Perché si parla di sex work e che cosa significa farlo? Abbiamo chiesto alla pornoattrice May Thai i pro e contro

Con il Covid-19 il lavoro sessuale, in particolare quello performato online, è diventato mainstream. Sempre più persone sono venute a conoscenza di OnlyFans, tanto che nelle prime settimane di lockdown la piattaforma ha registrato un aumento degli utenti del 75%, per molti casi è stato un bene; c’è chi ha scoperto una nuova fonte di reddito o chi ha trovato intrattenimento (ma anche confronto, e a volte conforto) in un momento complesso.  Carol Maltesi, sex worker di 26 anni, aveva iniziato così, durante il lockdown, proprio su OnlyFans. Poi ha deciso di esplorare l’industria a luci rosse, sfruttando la popolarità ottenuta su OF e realizzando video porno, più o meno hardcore, professionalmente. Successivamente, il femminicidio, l’accanimento dei media volto alla spettacolarizzazione e al clickbait, i giudizi moralisti.

La mentalità nei confronti del mercato del sesso è culturalmente determinata. È la società in cui viviamo, e il sistema di regole che ne deriva, a decretare che cosa sia accettabile o meno, e questo dipende da diversi fattori. È indubbio, però, che non sia sempre stato così e che, in ogni caso, il lavoro sessuale esista e non possa essere ignorato. Abbiamo così chiesto a May Thai, sex worker e attrice porno italo-thailandese, di raccontarci la sua esperienza per comprendere al meglio che cosa significhi fare sex work.

Che cosa si intende per “lavoro sessuale” e “sex worker”

Avete presente quando in Euphoria Kat inizia a fare video in cam? Ecco, quella è una forma di sex work. Ma anche le persone che su Twitch fanno ASMR in intimo stanno svolgendo sex work.

Per lavoro sessuale o sex work si intende un qualsiasi lavoro che preveda una retribuzione economica per servizi e/o performance di tipo sessuale, erotico o romantico, in maniera consensuale ed esplicita. Fare sex work «significa scontrarsi con violenze, pregiudizi e stigma, subire gli effetti di politiche ipocrite e proibizioniste. Purtroppo significa anche temere per la propria vita»; questo che scrive Giulia Zollino in Sex work is work, è sempre più vero, specie in relazione alla vicenda di Carol. L’abuso esiste nel sex work, ma non definisce il sex work, quindi sarebbe utile (e necessario) smettere di fare pornografia del dolore, dando rilievo soltanto alle violenze, e riappropriarsi della narrazione circostante, esplicitandone sì i pro e i contro, ma soprattutto ragionando in termini di diritti e tutela lavorativa.

Perché utilizzare il termine sex work? Almeno per tre motivi:

  1. Perché mostra l’agency delle persone sulla loro scelta di carriera (ovvero la loro capacità di agire in determinati vincoli strutturali);

  2. Perché indica un lavoro volontario e non implica alcun tipo di sfruttamento, non è dunque da confondere con la sexual exploitation;

  3. Perché separa la persona dall’occupazione.

Pensiamo al verbo italiano “prostituirsi”. Noi lo conosciamo con il -si finale. Eppure fino al XVII secolo non esisteva, e si utilizzava “prostituire”. La forma transitiva spossessa di capacità riflessive le persone prostituite. Proviamo a fare un esempio: se noi diciamo “Mariavittoria si prostituisce”, allora è Mariavittoria che ha compiuto questa decisione. Prima, invece, si diceva “Mariavittoria è prostituita”, implicando che lei sarebbe stata vittima di qualcuno o di qualcosa. Ribadire l’agency di una persona che fa sex work significa smettere di dire poverina! e di ribaltare il pregiudizio per cui ogni sex worker sia vittima di sfruttatori, reti o dei propri percorsi biografici. Non si tratta di vittime, ma di persone che hanno compiuto una scelta che deve essere rispettata.

Il “District” di Storyville (New Orleans) è stato il primo quartiere a luci rosse legale nella storia degli Stati Uniti, attivo fino al 1917.

Tutte le piattaforme online con contenuti erotici o sessuali, infatti, quando guadagnano l’attenzione pubblica diventano anche oggetto di attacchi pubblici (di una massa e una classe politica conservatrice, ipocrita e anti-porn) e rischiano pesanti ripercussioni, come quando Visa e Mastercard hanno sospeso l’elaborazione dei pagamenti su Pornhub. L’unico risultato di queste politiche è quello di spingere il mercato nella clandestinità, e creare quindi condizioni di lavoro ambigue, per non dire pericolose. È così necessario, in primis, riconoscere formalmente del lavoro sessuale, affinché ci sia anche una normalizzazione e un’accettazione sociale, e “regolamentarlo” in questo senso, in termini di diritti e, poi, di doveri. A tal proposito, il Sex Workers in Europe Manifesto è un documento elaborato e approvato da 120 sex worker di 26 Paesi differenti, presentato durante il terzo giorno della Conferenza Europea sul lavoro sessuale, i diritti umani, il lavoro e le migrazioni nell’ottobre 2005. Nel Manifesto c’è una sezione chiamata il nostro lavoro, in cui si parla proprio sia di diritti che di doveri.

Diritti come quello di associarsi e fondare dei sindacati, per ottenere le medesime possibilità di sviluppo professionali; doveri come le imposte e il sostegno finanziario della società in cui si vive. Ma finché non c’è un riconoscimento del diritto alla tutela legislativa (per assicurare condizioni di lavoro favorevoli, remunerazioni adeguate, previdenza sociale e assistenza sanitaria) è impossibile, banalmente, “pagare le tasse”.  O meglio: i contributi si possono pagare, perché le retribuzioni arrivano dalle case di produzione, o direttamente dagli utenti di OnlyFans, ma è sempre più difficile rivolgersi alle banche (che non vedono di buon occhio questi introiti, solo perché connessi al sesso). E non è un caso, quindi, che spesso chi fa sex work abbia trovato un punto di svolta con le criptovalute.E non è un caso che, invece di rivolgersi alle banche (che non accettano questi introiti, perché appunto non regolamentati), chi fa sex work abbia trovato un punto di svolta con le criptovalute.

Nel libro Femministe a parole, c’è un saggio di Giulia Garofalo (La fabbrica del sesso) che spiega una teoria di Paola Tabet, per cui:

«In tutti gli scambi sessuo-economici, compresa la prostituzione [e qui noi possiamo parlare di sex work in generale, ndA], l’elemento di sostegno materiale degli uomini verso le donne coesiste con quello di una sessualità non paritaria, tendenzialmente di servizio delle donne a vantaggio degli uomini. Ciò che sembra distinguere gli scambi che vengono stigmatizzati come “prostituzione” è che, rispetto agli altri, essi sono trasparenti, espliciti, e le donne possono negoziare apertamente. Secondo l’analisi di Tabet, queste caratteristiche vengono punite con lo stigma sociale e la criminalizzazione perché altrimenti potrebbero mettere in crisi un sistema in cui molti altri servizi forniti dalle donne, come quelli riproduttivi, domestici, psicologici, restano largamente informali, non riconosciuti e non pagati».

Il lavoro sessuale può essere quindi visto come una liberazione e un ribaltamento delle condizioni oppressive, economiche e sociali, storicamente subìte dalle donne.